Riflessioni a penna sciolta su scrittura terapeutica e scrittura creativa
Oh, essere un libro, un libro che viene letto con tanta passione!
Elias Canetti
Alcuni anni fa mi capitò di leggere un articolo su una storia editoriale che mi fece pensare molto riguardo a quanto un atto terapeutico sia sovrapponibile a un atto creativo.
Un giovane editore che passeggiava per le strade della sua città, si imbatté in alcuni cassonetti della spazzatura colmi di quaderni, taccuini e diari scritti a mano, alcuni di questi riversati in terra e maltrattati dalle intemperie.
Il giovane editore si fece l’idea che probabilmente erano stati gettati lì dopo la morte dello sconosciuto autore. Verosimile. In fondo, gli eredi trattengono ciò che ritengono significativo per loro e non per il caro defunto. Forse, invece, il caro vecchietto – non so perché dico vecchietto. Forse perché la produzione era tanta. e mi fa pensare a tanto tempo, a una vita lunga – era solo, di eredi non ne aveva affatto e si abbandonava alla scrittura per intrattenersi, per risolvere la giornata in una pagina, per parlare con qualcuno che era talmente immateriale da figurarsi come un’immagine di sé. Magari era in affitto in una stanza e dopo la sua morte i proprietari si sono sbarazzati delle sue cose, vecchie come lui. Ma qui sto proprio andando di fantasia. Non posso neanche rinfrescarmi la memoria recuperando l’articolo perché non saprei come fare.
Insomma, mentre il passante vede carta straccia e la calpesta frettolosamente perché sta facendo tardi a lavoro, magari bofonchiando qualcosa del tipo “mamma mia che sporcizia”, l’editore vede una storia che non è, o non è solo, quella registrata nelle pagine dei taccuini – forse molto poco interessante e avventurosa – , ma è la storia della riesumazione di un’identità che non passa per il nome ma per la parola, la storia della pratica della scrittura come registro di vita, evocazione e sintesi del passato e processo di continua riscrittura della propria trama che permette a chi scrive di ricollocarsi in una nuova posizione rispetto agli eventi del passato, oltre alla storia di una brillante operazione editoriale. Un’operazione che non ha neanche carattere di novità se pensiamo a tutti i diari postumi pubblicati, ma lì c’era una questione importante legata al cassonetto-dimenticatoio, all’oblio della memoria, alla perdita della voce, della parola come testimonianza, cose proprio all’opposto del motivo per cui quel signore si alzava la mattina e si metteva a scrivere di sé mentre saliva il caffè.
In fondo, in questi anni che ormai tendono al declino, il panorama della mia vita si presenta così intrecciato, e il destino così ormai compiuto, che è mio dovere – e forse diritto – tutto e tutti perdonare. Donando loro, simbolicamente, il mio ricordo.
J.J Rousseau
Ricordo che non si poté risalire al nome dello scrittore perché egli si riferiva a sé stesso in prima persona, così come spesso facciamo quando scriviamo il nostro diario: Io.
Io pensavo spesso a Io che, ormai vecchio, malato forse, con rigorosa disciplina, così come evidentemente faceva da sempre vista la quantità di pagine scritte, registrava sui suoi quadernetti i fatti importanti della giornata, imbastiva dialoghi con le persone del passato, sbrogliava ricordi, pensieri, ragionava tra sé e sé, magari ci litigava pure con sé. Lo so, forse sto andando troppo di fantasia, ma è importante l’evento così com’è come anche la risonanza che ha dentro di noi e tutte le immagini che evoca; così io mi sentivo come Io mentre gettavo un occhio alle pile dei miei quadernetti e un altro alla spazzatura e facevo il conto delle probabilità che un editore passasse per le strade della piccola provincia napoletana in cui risiedo proprio il martedì, che è il giorno della carta.
C’è un grado nella scrittura che fa di me e Io, di Montale e Vasco Rossi, del tipo che scrisse sul muro se ti lasci andare, le cose andano e il Sommo Poeta, squisita materia umana impegnata a essere quello che in effetti è, a tu per tu col foglio, custode fedele di un mondo segreto che è la diretta proiezione del nostro tesoro immaginale.
Siamo tutti uguali quando scriviamo. Noi ci cerchiamo, cerchiamo i significati, ci arrabbiamo, usiamo parole che non oseremmo mai pronunciare, ci confessiamo, facciamo filosofia. E poi ci leggiamo e ci sorprendiamo di noi stessi. Ci recuperiamo. Questo grado di scrittura fa bene, è terapeutica perché è creativa in quanto porta il nostro dolore nel mondo – anche se è solo una nuda stanza quadrata – con un atto unico e innovativo, straordinariamente nostro.
C’è un significato di “creativo”, poi, che è estroflesso e riguarda la fantasia e l’invenzione, la capacità di proiettare le nostre immagini interiori all’esterno in una forma universalmente comprensibile, ma questa è arte, un altro, e più alto, grado di scrittura. Tuttavia, si nutre della stessa materia che ci piega, tutti noi, sul foglio, al richiamo del daimon scrittore, un tipo antipatico che vuole sempre avere ragione lui. Poi, quanta strada farà la nostra scrittura, se fino agli scaffali della libreria o fin dentro il cassetto della scrivania o dentro un cassonetto della spazzatura, questo dipende dall’intenzione, dall’ambizione e dalle capacità di chi scrive, e anche da nostra signora Fortuna. Io e Io, Noi, ci fermiamo al diario.
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