La scrittura è una lunga introspezione, è un viaggio verso le caverne più oscure della coscienza, una lenta meditazione.
Isabel Allende
Una delle resistenze che tipicamente si incontrano in un gruppo di scrittura terapeutica è l’idea che la scrittura debba essere bella, che non si è all’altezza di scrivere qualcosa di degno o che il dolore non abbia parole adeguate, che sia indicibile, tanto sfuggente alla mente quanto presente e imperante nel corpo e che quindi scrivere sia inutile.
Tutte idee legittime perché contengono un fondo di verità; il dolore mentale fa male proprio perché è indicibile, poco si presta alla riflessione perché è urgente e spinge ad agire, a spingerlo fuori non per guardarlo ma per espellerlo, per allontanarlo da sé; oppure il dolore invita a ristagnare, a cristallizzare un’immagine piuttosto che contemplarla nella sua forma fluida e plastica.
E poi, sì, la scrittura è bella! Ma non nella sua forma artistica di componimento poetico-letterario (qui è altra l’arte di cui si parla), ma nella sua forma espressiva; chi scrive in un contesto terapeutico fa l’esperienza di scriversi e di leggersi come se fosse l’Altro che accompagna nel dolore, fa un’esperienza estetica di rispecchiamento che porta con sé un energico tratto di meraviglia, di novità, di rivelazione, cioè di bellezza.
Si invita, quindi, i partecipanti ad abbandonare un atteggiamento performativo rispetto alla scrittura e a considerare, con fiducia, il tratto della penna come un compagno che mostra una via, che si offre come tramite, che dà parola all’immaginario.
Rispondi